Presentazione

Il lavoro ventennale di Elisabetta Tosi, pittrice fiorentina, si può suddividere in almeno sette stili differenti. Il passaggio, però, dal numero al riassunto, cioè dallo stilema alla  sua descrizione, risulta un vero e proprio livello del pensare e soprattutto del fare;  occorre, per definirlo, tutta la forza del concetto di declinazione: enunciare la fase  conclusiva di un fatto o di un fenomeno, ossia conoscerne la manifestazione filtrata  attraverso quella metamorfosi che porta avanti, in fondo, alla fine, che qui però pare  una sorta di detrazione a priori, una specie di riduzione costruttiva elementare non  ancora sintesi. Così si rivela il senso linguistico del suo lavoro: la rilevazione per stati del fare – siano essi stadi o strati, siano processi o ambientazioni. E’ quasi una poetica propedeutica, che tuttavia non concerne né tratta la pratica del non-finito.  Storicamente, tale linguaggio pittorico deriva sia dal bagaglio ottocentesco francese, nel dialogo con chiari e distinti postimpressionismi, sia dall’italianità novecentista che porta con sé il gusto un po’ amaro della citazione nobilitata. Tecnicamente, l’esito figurale o, più raramente, informale del dipingere, si lascia riscoprire fino a svelare la trama e l’ordito di un sentire giovane, ma che non fa dell’imprimitura la prima realtà del «trattamento artistico».  Credo di poter dire che per Tosi il sapore dell’arte è reso a testa alta con l’utile strumento del fare; senza usare la granitica Ars gratia artis o deviare verso le non poche politiche dell’Art pour l’art, qui sembra contare l’avvertire, il trasmettere, il rilasciare un «sentire artistico» con l’autorizzazione a vedere il mondo com’è più probabile sia, cioè tradurlo senza interpretarlo troppo. La semplicità di talune ambientazioni d’interni, per esempio, sempre delineata con l’ombreggiatura dell’ingombrante contorno nero – e resa viva da ariosi cromatismi per mossi, quasi liquefatti piani – assiste le vicende descrittive nel presenziare l’opera tramite il segno, sorvegliando la scena di una tensione strutturale della forza comune. I ruoli genuini di arredi elementari che «sono soltanto per essere» costituiscono la vita di oggettisoggetti in cui risiede naturalmente la realtà del quadro; non esistono in altro modo o in diversa dimensione che non sia la disposizione preferita e scelta dall’artista, quella «di per sé».  La maniera, invece, in cui ciò accade è «vera per inquadrature»; assume cioè la dignità della propria accezione a causa della posa costruita, quella che l’autrice impone agli interni: spesso dall’alto o da un angolo, a tentare la semplificazione della complessità esercitandosi nella soluzione della disposizione panoramica o di scorcio. Ed è così che si giunge alla strategia delle funzioni: una sorta di vorticoso assunto spaziale in cui i contorni sono pura linea (costante, continuata, massiccia), che spesso evidenzia il proprio tratto midollare, vivifico, nel segno. E’ il ruolo del solco della setola, malcelato e quasi celebrato, tanto che – se il colore finisce – allora sarà soltanto più chiaro il bianco della tela scoperta! Come presenza inquieta, questi momenti diventano tracce eteree di pittura: brani di paesaggio fuori dal vetro di una finestra, o cenni di figura che a quel vetro stanno dentro. Si tratta di una veduta che è già in qualche modo visione: un’immediatezza che rende il palazzo una parete, la strada un tavolo, il ponte un vaso, il fiume un pavimento, la gente bottiglie o lampioni.  La natura, al contrario, non subisce trasformazioni concettuali, ma sempre fisiche, lenticolari; i colori scorrono lenti, come flussi più o meno densi su campi, strade, fiumi, alberi, fino a sublimare in cieli acidi, senza mai smarrire del tutto, però, quelle vibrazioni che definiscono il fenomeno aeriforme. Questa natura, tuttavia, sa anche darsi in pose ardite, perfino innaturali: i tralci sono braccia; i lampioni, giraffe in inchino; le panchine come radici e le finestre delle case come frutti… La materia respira nella tensione della simbologia biologica, a celebrare la relazione ambigua tra sagoma animale e forma vegetale. E si palesa sempre in una liturgia ancillare, sempre con forza curvilinea; nel tentativo di esortare quasi a una seconda figuralità.  Infatti, anche quando si compiono nella veste geometrizzante delle figure – siano  esse oggetti o soggetti – certe linee sembrano cerchi di un sasso in acqua… e  giocano con la realtà per attribuire nuovo scopo alle forme, un’altra vita alle cose: i  canterani s’inchinano al sofà; le gambe caprine delle sedie s’incastrano tra loro; i  tavoli non arretrano incontro alla credenza minacciosa, seppure, di sopra, tremino,  incerti, vasi e piatti; come cavalli riassunti, due poltrone si corteggiano; come  avventori spettrali, le sedie incrociano un tavolo e qualche bicchiere è giallo di  lampadario. Queste opere – le più «domestiche» di Elisabetta Tosi – raccontano il simulacro crepuscolare del quotidiano, familiare ma allucinato.  In differenti vicende, invece, tutto è grigiore. La natura si consola in poche, gigantesche forme; pochi e giganteschi attori, tutti protagonisti di paesaggi a sbalzo quasi metafisico e, in qualche caso, grafico o addirittura concettuale. Qui l’alfabeto diventa innocente sensualità. Le piante come corpi, come carne: pronte, protese, propense a un vivere che è mutazione. Artificialità meccanica, Natura vegetale, Natura animale. Meccanismi a tenaglia, foglie a forbice o seme, gambi a coda. Ora l’arte serve l’erotismo del guardare. E guardare è (anche) guardarsi.  Ma i contesti più atipici, forse, e forse anche più universali, distraggono con contenuti senza forma. Tutto qui è infinito, pesante e ravvicinato, suddiviso fino a collocare i propri sintomi in un cromatismo interrotto, che solamente per divagazione potrebbe assurgere a cielo o aria. Questo motore visivo incastona brevi cenni di volume nella stasi di strutture astratte, costituite di texture ideale che si lascia descrivere per intersezione di piani, spesso privi anche di sfumatura, dove qualche linea scrive confini senza, infatti, vibrare.  La pittura di Elisabetta Tosi, insomma, non si nasconde mai; e si mostra anche quando sembrerebbe quasi non esserci. Ricorda a tratti certi indizi di Cézanne, De Pisis, Casorati, Soffici. Ricorda, più da vicino, gli esempi di Berti e di Nativi, con i loro meccanismi informali. Questa pittura approda così, come esercizio del riferimento, all’esperienza descrittiva che significa ma non racconta. E’ una pittura della strutturazione analitica, tra estetico e simbolico senza arrivare né all’uno né all’altro.